LE BELLE STORIE DELL’IPPICA : Luca Panici .
Lucky e la meravigliosa corsa d’attesa (del sogno)…

ALBERTO FOÀ·SABATO 20 GIUGNO 2020·
L’amore, la bellezza e il mal di denti non hanno età.
Neppure le favole: “E invece c’è un punto preciso -cito una canzone ancora in cerca d’autore (ma più che altro d’interprete)- che il sogno si avvera”…
Tutto sta a capire quando, qual è quel punto e quanto si debba corrergli dietro. Roba da niente, insomma, stikazzi. Per non arrendersi prima delle tre l’una: 1) sei quello che per gli altri è solo uno sfigato che non sa guardare in faccia la realtà, 2) sei così figo che quello che dicono o pensano gli altri ti rimbalza e conta meno di zero e cascasse il mondo hai il diritto e il dovere di crederci sempre e non patteggiare mai, 3) Sei Luca Panici.
Ne ha sognati di sogni Luca, quasi tutti a cavallo (prima delle eccezioni il Milan), fin da bambino. E ne ha avuti, Luca, di bruschi risvegli…
In sella ci è nato, per dna (papà Vittorio e lo zio Carlo fantini di rango, anche se molto diversi tra loro e molto molto distanti, caratterialmente e per talento -in gara e non solo- da lui), ambiente (anche il fratello Marco -a sua volta diverso- iniziato alla carriera d’allievo e, soprattutto, gli amici) e, specialmente, passione. Sì, perché se qualcuno gli avesse chiesto -è capitato- “che cosa vuoi fare da grande?” la risposta sarebbe stata -e lo è, stata- “voglio restare piccolo, per fare meglio il fantino”…
In realtà, anche fosse diventato tre metri, ci avrebbe provato lo stesso perché i sogni e la volontà, la passione appunto, mica hanno codici, canoni, limiti.
E nemmeno lo sport. Altrimenti col ciufolo che Mennea batteva in volata i neri, manco per il cavolo che Van Basten si sarebbe mai incollato un pallone ai piedi e per il cazzo (e un citofono, si diceva ai tempi per dire dei nani) che Muggsy Bogues avrebbe mai potuto giocare nell’Nba dall’alto (cioè basso) del metro e sessanta scarso, anzi, il fantino, lo avrebbe fatto lui…
Luca, comunque, ci era, come si suol dire, portato: mani dolci, intesa con il cavallo, senso del traguardo e fiuto del gol, pardon, del palo, inteso come arrivo, traguardo.
Però c’era sempre un però: troppo bravo ragazzo, educato (manco fosse un difetto), fighetto, corretto, timido, molle, riflessivo. Perfino, come critica, puntuale, professionale, affidabile.
Ma, soprattutto, figlio di papà…
Come Frankie Dettori del resto, il figlio del “Mostro”, che adesso, alla soglia dei 50 anni -quando gli altri di solito hanno smesso da un pezzo- è il più famoso, vincente e pagato del mondo ma io stesso alle prime monte pensavo (e per fortuna non l’ho mai detto ad alta voce) che ad andar bene era buono per farci il sugo e giusto a Natale.
Invece, Luca, a me, piaceva davvero. La stoffa c’era e poi era del Milan, anti-juventino convinto. Un po’ meno convinto in gara, fino a essere più bullizzato che rispettato, temuto. Ingaggi di chance pochini, più richiesto al mattino quando e dove, prima di tutto si presentava e poi se dava un parere (che annotava sul suo quadernetto) dopo un “lavoro” o ci prendeva o ci andava comunque vicino.
Poca frusta (anzi, qualche anno dopo, quando lo dichiarai partente su una mia cavalla e gli dissi che non doveva proprio portarselo, il frustino, fu l’unico a non domandarmi nemmeno il perché e se ne uscì con un “Certo Alberto -ed era la prima volta che la montava- lo so, che non volete la frusta ce l’ho appuntato sul quadernetto, in testa e nel cuore”) e tanta testa, concentrazione, riflessi, una spiccata attitudine per la corsa d’attesa, il sapere aspettare, che, non sempre, è pazienza. Almeno non solo…
A me piaceva ed è sempre piaciuto (per la cronaca, con Betfair Lady ci vinse), ma per i soliti “saponi” del galoppo (che resta un paradiso rispetto all’ignoranza ambientale del trotto) c’era sempre qualcosa che non andava: troppo leggero, troppo serioso (invece era spiritosissimo e sorrideva dentro, in modo quasi contagioso), perfino troppo serio e soprattutto, troppo fissato che l’ippica italiana avesse preso una brutta piega…
Tanto che poco poco, appena arrivò l’occasione per uno stage in America, mollò baracca e burattini e partì.
Era un periodo contrastato, a San Siro: un bel contratto con una delle scuderie più belle, appassionate e organizzate, la Briantea del Dottor Bedini e di Mario Ciciarelli, persone che la “serietà” apprezzavano come pregio e requisito indispensabile, ma i loro cavalli avevano vinto molto in inverno a Napoli ed erano gravati al peso (nel galoppo per livellare le gare i cavalli più forti o che abbiano vinto di più portano in sella un handicap ponderale) e le vittorie arrivavano con il contagocce; le corse, gli ingaggi extra Briantea, ancor meno e poi Luca aveva quel cavolo di sogno e l’America, si sa, specie in quei tempi, era facile da sognare…
Stage superato, con tanto di gavetta e sapiente umiltà e conferma da parte di un bel team e anche del pubblico a stelle e strisce che ne amava i finali, composti e decisi perché Luca la grinta l’ha sempre avuta e poi -l’ho già scritto- sapeva aspettare meglio di tanti.
Insomma, il ragazzo italiano, Lucky, come avevano preso a chiamarlo da quelle parti, ci andava davvero prendendo gusto e cominciavano ad arrivare le prime soddisfazioni, i primi guadagni (soldi veri), i primi ingaggi importanti anche nei circuiti che contano…
Ma il ragazzo italiano, sempre meno ragazzo, restava comunque italiano e togli a un italiano la mamma, la moglie, la pizza (e aggiungeteci il Milan) e vedi se non si fanno sentire. Così, Luca si prende una vacanza da Lucky, lascia una porta aperta all’America e un buon ricordo di sè, come uomo e professionista e torna a Milano.
Dove, nel frattempo, provavano a scimmiottare gli americani con la storia dei manager dei fantini. Solo che mentre oltreoceano un manager poteva al massimo gestire procura ed ingaggi per due professionisti e un allievo, qui in tre o quattro (di cui una buona metà più o meno improvvisata) faceva il bello, ma soprattutto il cattivo tempo e se non eri dei loro, se ancora viaggiavi a quadernetto e rispetto, eri tagliato fuori, non ti mettevano mai su, a parte il papà allenatore, la mamma proprietaria, i veri amici e gli estimatori opportunisti come me che sapevano che Luca, a dargli fiducia, aveva davvero una marcia in più e quella sensibilità speciale che fa comunque la differenza, nell’ippica come nella vita.
A dir la verità ai cosiddetti manager made in Italy Panici avrebbe anche fatto gola, ma la cosa non era reciproca, perché per potersi affidare a un altro, averlo come filtro con scuderie e allenatori e pagarlo, per Luca il minimo dei minimi era che l’altro seguisse lui e non lui e altri 32 colleghi, che altrimenti avrebbe montato meno -e peggio- che raccomandandosi ai ragazzini del volantinaggio fuori da scuola.
E così andò. Poche gare, poche chances, qualche bella vittoria a sorpresa (un paio con Bet, ancora grazie), perfino una corsa al trotto, nel circuito delle Stelle, in sulky a una cavalla di nome Gallinella e poco altro. Aggiungiamoci il Milan in crisi e una moglie capace di stargli accanto anche a distanza e quel cazzo di sogno e delle due l’una: o Gallinella se la comprava e si dava al trotto o ritornava in America, questa volta forever…
E così, andò. Con un manager capace e dedicato, con quella capacità d’interpretare i cavalli e le corse con lo stile ed il modo più adatto, secondo le diverse esperienze: con il cronometro come da quelle parti, con la volata finale come i francesi, sul passo o di spunto come in Italia, sull’erba come a San Siro o in sabbia come a Varese, a spingere come in Inghilterra e, soprattutto, a galoppare con l’animale lasciandolo fare e a sapere, insieme, aspettare come soltanto Lucky sapeva fare. La corsa d’attesa. Del Grande Sogno.
La terza vita di questo ragazzo, che ormai come fantino avrebbe l’età dei datteri, non avesse l’amore e la classe di mantenersi in forma e un’attesa infinita di riempire la casella giusta, comincia e prosegue nel modo giusto. Certo, la nostalgia -e qualche volta un pizzico di solitudine e malinconia, “ma i cavalli aiutano e poi ho un paio di amici e un gatto davvero speciali”, spiega sorridendo da dentro”- si fa comunque sentire, ma la moglie lo va a trovare, la pizza può attendere e in America i napoletani non mancano e per il Milan ci sono pur sempre lo streaming e la pay tv…
Poi Karin, la moglie fa anche lei il grande salto, come manager di un’azienda internazionale e da Milano vola e convola a Hollywood dove adesso i due abitano e vivono insieme vita e carriere.
Lucky vince e convince, sale di categoria e nella considerazione dei trainer, che gli affidano cavalli sempre più forti e stimati. Il sogno di sempre riprende a riprendere forma, insomma, altro che vecchio…
La sveglia è un brutto infortunio, alla spalla, che arriva prima del Covid. Per un fantino la spalla è come per un aereo le ali, se senti male, se non puoi spingere meglio che lasci perdere…
Non Lucky, però. Lui sarà pure dannatamente educato, ma ha due palle che fumano, altro che figlio di papà, altro che molle, leggerino. Venti ore di recupero, di esercizi, di vita e riabilitazione al giorno, fisioterapia e, appunto, ippoterapia, la compagnia del gatto e quell’attesa del sogno da non disilludere e il gioco è fatto.
Torna in gara. Riprende subito a vincere. Nel 2019 erano arrivate le 600 vittorie in America, oltre 1000 in totale, oggi, come la più bella delle favole vere, le Belmont Stakes, la corsa delle corse, la prova più importante (e quest’anno la prima) della Triple Crown, la Triplice Corona, il trittico milionario che, a proposito di Hollywood, ha consegnato al mondo Seabiscuit e Secretariat…
Una storia centenaria, un film leggendario e un appuntamento che, solo, vale tutta la vita. Non c’è Champions europea che tenga, in America non c’è Superbowl, non esiste Nba, le elezioni sono il 2 di picche con briscola a cuori, per quanto hanno seguito, al confronto.
Stasera -in Italia mancherà un quarto d’ora alla mezzanotte- la corsa sarà trasmessa in sei continenti su cinque e forse su Marte e Luca Panici sarà il primo fantino italiano a prenderne, a farne parte.
Cent’anni da sogno, 46 (come la moto di Valentino) per questo ragazzo freddo a suo modo, con il caldo e il fuoco di dentro della passione, la fretta invincibile di sapere aspettare. Traguardo incredibile per uno spedito a quel paese dai “saponi” italiani come uno “scarso”…
Monterà Sole Volante, un campione dal nome -e il cognome- italiano come il fantino. Con Lucky ha vinto in Florida la prova di avvicinamento e stando alle quote, che pure vedono favoritissimo Tiz the Law, le possibilità di ben figurare ci sono tutte: “Molto dipenderà – avverte Luca- da come il cavallo, che peraltro ha un’intelligenza fuori dal comune, si adatterà alla sabbia della pista di Belmont, del tutto diversa da quelle affrontate finora”…


Sole Volante
E come in ogni fiaba che si rispetti, anche il cavallo ha una storia da favola…
Da ragazzo, pardon, puledrino, fu messo in vendita, ancora senza nome, in un’asta breeze up, dove cioè i cavalli non sfilano solo ma li puoi veder galoppare.
Patrick Biancone, cognome quasi italiano ma di terra francese, uno che ha vinto un’Arc de Triomphe (la corsa più ambita in Europa) e che si va facendo strada anche negli States, lo nota non tanto, o almeno non solo, per come galoppa quanto per la bellezza e la dolcezza del muso e dello sguardo, robe che i cavallari spesso guardano sì e no ma stavolta è sì perché quel puledro diventa il regalo di compleanno per Andie, che del trainer è la figlia adorata e pure prima assistente.
E’ lei che gli mette il nome “per la luce e la forza che sa trasmettere” ed è lei che all’arrivo dei primi successi e delle grandi offerte accetta di cederne la maggioranza ma conservandone il 20% e i diritti del cuore.
Il Fato, il destino o come diavolo volete chiamarlo (anche culo va bene) è che i partner prescelti siano i coniugi Reeves, che hanno fin dai tempi dello stage avuto fiducia in quel ragazzo italiano e quindi già nel test di preparazione, d’accordo con Andie e con Patrick, mettono in sella al loro pupillo e al sogno proprio Luca.
Che con Sole vince e convince ed è confermato per la grande sfida di oggi.
Perché sapere attendere un sogno non vuol dire pazienza ma crederci sempre, darsi da fare per realizzarlo. Anche quando sembra impossibile.
“E invece c’è un punto preciso che il sogno si avvera”, lo dice anche quella canzone…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *