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Ma i cavalli sono intelligenti?
 
Se facciamo ricorso agli studiosi le convinzioni, i pregiudizi e gli schieramenti ideologici diversi influenzano la risposta: nel “Trattato di Ippologia” Fogliata dice no, ne “Les Cheaveaux du Sahara” Daumas dice sì, in “Attraverso il mondo ippico” Lupinacci dice no, in “Dell’arte equestre” Senofonte dice sì, ecc.
 
Questa altalena di risposte continua all’infinito se ci rivolgiamo a chi, per ragioni professionali, ha quotidianamente a che fare con il cavallo (allevatori, allenatori, fantini, artieri, ecc.): anch’essi rispondono alternativamente sì e no. Per alcuni il cavallo è molto intelligente, sensibile, pronto, accorto, sempre disponibile, solerte, alacre, fervido, capace di dare tutto se stesso e più di quanto gli si chieda fino a morire sul campo, sobrio, ingenuo, indifeso, fedele, onesto, leale, coraggioso, bonario, mite, dolce, sereno, così irresoluto da apparire timido, gaio, spensierato, giocoso, affettuoso. Per altri lo stesso cavallo è stupido, ottuso, tardo, infingardo, pigro, svogliato, apatico, indolente, poltrone, negligente, sospettoso, geloso, apprensivo, pauroso, autolesionista, ingrato, birbone, commediante, talvolta anche malvagio e vendicativo, indocile, scontroso, testardo, caparbio, cocciuto come un mulo. Secondo alcuni è frugale, gli basta poco, per altri è ingordo e insaziabile fino a crepare di indigestione, di colica. Per alcuni diventa focoso, ardente e intrepido per la propria emotività, per altri è un animale pericoloso.
 
Gli ippofili abbozzano di continuo un dialogo in un tentativo di definire virtù, meriti e vizi del cavallo ma senza mai giungere ad una valida sintesi. Molto spesso a prevalere nelle discussioni sono le opinioni personali dettate dalla simpatia o dall’antipatia verso questo magico e misterioso animale chiamato cavallo (che qualcuno confronta erroneamente con i cani, animali con i quali esso non ha alcuna analogia o riferimento). Molto spesso l’idea personale è influenzata anche dal carattere dei cavalli che si sono frequentati e dal carattere della persona che fa la valutazione, dal suo ottimismo o pessimismo, dalla sua fiducia negli affetti e nella comunicabilità tra esseri diversi.
 
C’è chi ama il cavallo, lo coccola, ne ricerca il dialogo e c’è invece chi lo intende e lo usa come un oggetto da adoperare e poi mettere via alla svelta.
 
Chi non ama i cavalli sa unicamente della propria intelligenza: vede che nessun cavallo ha costruito case, istituito parlamenti, fatto guerre, dipinto quadri, scritto sinfonie ma se è vero che l’uomo si organizza per vivere al meglio la propria vita, il cavallo si organizza al meglio per vivere la sua e nessuno saprebbe essere intelligente quanto un castoro per vivere da castoro o quanto un’ape per vivere da ape.
 
Il problema coinvolge tutta l’intelligenza animale, quei concetti di riflessi condizionati, di abitudine, di memoria visiva o associativa, che possono confondersi ma possono anche essere altrettante manifestazioni dell’intelligenza. Spetta a noi il compito di penetrare la psiche equina e tentare di interpretarla attraverso tanti piccoli segni e sfumature di comportamento.
 
I riflessi condizionati del cavallo sono formidabili: sono anzi la base di infinite discipline per cui a molta gente di cavalli consiglieremmo di non dire mai “i cavalli non sono intelligenti” o “che animale stupido” perché essi sono (anche in corsa) lo specchio dei loro convincimenti e del loro comportamento: come dicono gli Arabi e Senofonte sono loro figli!
 
Gli studi sulle possibilità di apprendimento da parte degli animali mettono in testa a tutti il cavallo che dopo un anno ricorda 19 esercizi ottici appresi su 20 contro i 18 su 20 e 12 su 13 dell’elefante che gli è pari (ben avanti a tutti gli altri) nel numero e nella rapidità delle operazioni da apprendere e degli oggetti da riconoscere.
 
Elberfeld, piccola città della Germania, divenne improvvisamente famosa nel primo decennio del secolo perché era sede dei cosiddetti cavalli sapienti. Oltre cento memorie sono state pubblicate dagli studiosi delle più disparate tendenze, per lasciare praticamente la questione come la si trova oggi, cioè nel più oscuro mistero (i cavalli pensano liberamente? Può avvenire dall’uomo al cavallo la trasmissione del pensiero? Si tratta di automatismo inconscio?). I cavalli sapienti erano sette: il russo Hans; gli arabi Muhamed, Zarif, Harun e Amasis; il Shetland-Pony Hanschen; e Berto, un grosso cavallo cieco del Meckleburgo. Aveva cominciato la sua strana fatica Wilhelm von Osten a Berlino, dove aveva educato Hans. Alla sua morte (nel 1908) Karl Krall, un ricco orologiaio di Elberfeld, dopo aver ereditato Hans, acquistò ed educò gli altri sei. Si provò anche con due asinelli e un elefante ma con scarso successo. I sette cavalli sapienti rispondevano battendo con lo zoccolo su una pedana di legno alle domande o ai quesiti scritti su una lavagna. Per Berto (che come detto era cieco) si usava la domanda a voce o la sua significazione per mezzo di segni battuti o tracciati con il dito sulla sua pelle. Ma tutti rispondevano battendo con la sinistra o con la destra, secondo una tabella di ragguaglio stabilita da tempo (per le lettere e per i numeri) e rigorosamente appresa dai cavalli. I più bravi, Muhamed e Zarif, riuscirono a risolvere radici quinte proposte dai visitatori e dagli studiosi; riuscirono anche a formulare e a comunicare pensieri propri, ad indicare la stanchezza, il desiderio di smettere, ecc. Muhamed, uno dei sette cavalli di Elberfeld, seppe rispondere senza la presenza del suo istruttore alla pazzesca domanda “quanto fa 2825761 meno 531441 sotto radice quarta” (per la cronaca fa 14).
Il più grande allenatore di galoppo Federico Tesio che per alcuni fu un crudele stregone (per i massacranti test a cui sottoponeva i suoi allievi) e per la maggioranza un mago non fece mistero di aver fatto esperimenti sui cavalli da corsa determinati dal fatto di reputarli intelligenti e capaci di ragionamenti complessi.
 
Dai racconti dei viaggi in Argentina e in Patagonia di Tesio abbiamo conferma dell’incredibile sesto senso dei cavalli: “Alle volte l’aria era calma, non muoveva filo d’erba nella sconfinata prateria. Improvvisamente un cavallo puntava le orecchie, raspava con il piede e si coricava. In pochi minuti tutti gli altri cavalli della mandria lo imitavano. E, fatto strano, tutti si coricavano con la schiena rivolta dalla stessa parte della rosa dei venti. Poco dopo arrivavano le prime ventate del Pampero, vento più forte della bora a Trieste. Quando soffia il Pampero è difficile rimanere in piedi, bisogna buttarsi a terra. Con quale senso i cavalli avevano captato prima dell’uomo a grandissima distanza lo sconvolgimento dell’atmosfera? Perché avevano puntato le orecchie? Perché si erano coricati voltando la schiena al futuro vento?” …
 
E ancora: “… Quasi ogni giorno qualche cavallo butta in terra il cavaliere e scappa. Immediatamente si ode gridare “Cavallo in libertà! Attenti al cancello!”, il cavallo scosso si precipita al galoppo verso l’uscita, se trova il cancello chiuso fa dietrofront e dopo essersi sfogato in una brevissima euforia di libertà ritorna tra i suoi compagni e alle servitù dell’uomo. Ma se trova il cancello aperto esce di carriera e senza guardare né a destra né a sinistra, cioè senza nessun controllo visuale, ritorna alla sua scuderia correndo come un pazzo per la via più breve. Eppure abbiamo constatato che il cavallo ha una vista cortissima. Come fa in queste condizioni a ritrovare la strada alla massima velocità senza guardare ad alcun punto di riferimento? Non so … ma osservo che tiene le orecchie puntate in avanti” …
 
Ancora il “Mago” Tesio: “I nostri cavalli da corsa vivono in celle che sono delle stanzette di metri 4 x 4 x 4, cioè 64 metri cubi d’aria. In un angolo c’è la mangiatoia, in un altro l’abbeveratoio. Di notte neppure un lumicino. In questa oscurità il cavallo si corica, si alza, mangia, beve… e non urta quasi mai nelle pareti. Cioè ne percepisce l’esistenza anche al buio. Alcuni soggetti, diventati nevrastenici per effetto dell’allenamento intensivo si mettono a trottare di notte in quei pochi metri cubi della loro prigione. Come fanno al buio a non urtare nel muro? Quale senso li guida? Osservate un plotone di cavalli purosangue che, montati, camminano sulla strada in fila indiana. Quello di testa tiene sempre le orecchie puntate in avanti, gli altri no. Se il capofila si ferma, tutti si fermano: se fa dietro-front, tutti fanno dietro-front, specialmente se percorrono una strada sconosciuta. Perché? Perché il battistrada si assume la responsabilità della sicurezza del plotone e per far questo punta le orecchie?”.
 
Romolo Ossani non aveva dubbi sull’intelligenza dei cavalli, era come Tesio e Senofonte: i cavalli li addestrava parlando, li puniva (al muro) o li premiava parlando. Chi era a Modena quando Mistero vinse il Gran Premio Ghirlandina si gustò un bello spettacolo: Romolo Ossani che entrò in pista con alla lunghina Mistero e gli parlava (“Siamo a Modena: ti ricordi che ci siamo già venuti?”) accarezzandolo con una pacca amichevole e Mistero che osservava l’ippodromo e il pubblico. Ma basta vedere un gran premio: cavalli docili, fiduciosi, ardenti che sono cresciuti bene nell’abbondanza e nella fiducia. Essi sono a correre i gran premi perché sono più forti e innocenti ma anche più intelligenti (ecco una cosa che in molti non riescono a capire) degli altri cavalli.
 
Romolo Ossani, contrariamente a quanti usano con i puledri cuffino e paraocchi per far sì che siano costretti a concentrarsi nel lavoro richiesto, ha sempre sostenuto che i puledri vanno assuefatti a tutto e li portava addirittura in città nel traffico, questo per far vedere al puledro ogni cosa che lo circonda e per rendersi conto di tutto evitando così la paura derivante da rumori uditi di cose non viste.
 
L’ippodromo di Montecatini non è il solo ad essere sfiorato da una linea ferroviaria ma nessuno ha la ferrovia così in vista e a contatto dell’ultima curva della pista con la piccola scarpata che in passato è stata una tribunetta supplettiva per gli appassionati e i ragazzi che non volevano spendere i soldi del biglietto. E la ferrovia la vedeva bene anche il grande Crevalcore che ogni volta che passava il treno si alzava tutto sui posteriori ed emetteva un gioioso nitrito all’indirizzo del treno che passava sbuffando. E raccontano che quando Crevalcore a carriera finita fece tappa a Montecatini di ritorno da una clinica appena sceso dal box iniziò a nitrire come per chiamare a gran voce “Ehi, sono qui! Il treno c’è sempre? E’ tornato Crevalcore!”
 
Nell’intervista che il gentlemen Stefano Algerini mi rilasciò per il sito Ippicando diceva di Orlav: “All’inizio Orlav era abbastanza ombroso e sospettoso. Del resto aveva anche ragione, chi era quel tipo che improvvisamente lo riempiva di attenzioni? E dunque mi conquistai la sua fiducia un po’ per volta. Con lui cominciai anche a fare “prove”, cioè a lavorarlo svelto nella pista dell’allevamento. Mai avuto paura, nemmeno per un attimo. Era come guidare una fuoriserie con gli occhi, se c’era da frenare sapeva benissimo da solo quando farlo. A volte pensavo che con lui sarei potuto tranquillamente uscire dal cancello e avviarmi verso il centro di Montecatini, tanto avrebbe sicuramente rispettato gli stop ed i semafori. Eravamo arrivati ad un grado di confidenza tale che, nell’attesa della corsa, tirava la testa fuori del box, me la poggiava sulla spalla e poi chiudeva gli occhi. Sono ricordi che mi danno i brividi! Negli ultimi mesi Orlav smise di andare. Correva senza grinta, sembrava avesse capito che si avvicinava la fine della carriera. Pensavo di smetterla, non volevo che finisse con la freccia in giù, non se lo meritava. Ma Antonio ci convinse ad insistere. Ed, infatti, come se lo sapesse (lo sapeva, lo sapeva…) all’ultima corsa della carriera, il 28 dicembre 1999, in un gelido pomeriggio davanti ai soliti cento spettatori delle Mulina, tornò a vincere in percorso esterno. Come piaceva a lui. Si vede che gli andava di lasciare un bel ricordo!” E parlando di Shirley Sun diceva: “Shirley Sun era la classica cavallina “non da corsa” arrivata all’ultima fermata. Portata ad Antonio dal suo allevatore se ne stava tristissima nell’ultimo box della scuderia ispirando tenerezza e compassione. Ovviamente era in vendita, anzi in regalo, così proposi “l’affare” a tre miei amici, appassionatissimi di corse ma che mai avevano pensato di possedere un cavallo. Era partente a Firenze, così dissi loro di venire a vederla per prendere una decisione. In 1600 metri riuscì a sbagliare quattro volte. Dopo la corsa vennero a vederla in box. Presa! Quando si dice una decisione ponderata… Per un paio di mesi continuò a sbagliare allegramente in tutte le corse cui partecipava e il gruppo cominciò a presentare le prime crepe con la fiducia che veniva a mancare. Decidemmo di darci una scadenza: “Se entro un mese non si piazza, molliamo!” Allo scadere del mese, all’ultimo tentativo, arrivò seconda! Per me l’aveva capito, altrimenti non si spiega.”
Per l’allenatore che ama i cavalli non c’è nulla di più bello che formare un cavallo da corsa da un puledro svagato, pieno di estri, di capricci; intenderlo nella sua indole, cercarne i pregi, eliminare a poco a poco i difetti, afferrare l’analogia tra difetti psichici e fisici, capire l’ordine, il perché di certi vizi, di certe apparenti intemperanze. Ma prima di tutto occorre capire una cosa: che al puledro bisogna fare la mentalità del cavallo da corsa a poco a poco, senza precipitare, evitando che contrattempi intervengano ad impressionarlo.
 
I cavalli non sono cattivi ma sono sospettosi per legittima difesa. Alcuni allenatori e artieri, pur usandoli quotidianamente, fanno di tutto per non capirli, per non comunicare con loro se non attraverso gesti rozzi, ruvidi, sgarbati. Le “lezioni”, tipo il colpo di frusta, il castigo attraverso redini e imboccatura vanno date all’istante, immediatamente dopo la stravaganza o la riottosità del puledro. Quando passa il tempo il cervello del cavallo non arriva più a collegare il castigo con la causa che l’ha determinato. Per questo le botte in scuderia dopo la corsa sono delittuose. Picchiare il cavallo nel suo box, nella sua casa, dopo lo sforzo della corsa è ignobile, vigliacco e stupido. Solo gli imbecilli e i maleducati, i rozzi per natura possono commettere questo delitto.
 
Un filo di insofferenza (non di cattiveria) nel purosangue e suoi derivati c’è. Eclipse era reputato cattivo ma venne “guarito” da un uomo di scuderia che seppe capirlo. Si trattava di insofferenza dovuta a gran sangue, a nervi a fior di pelle per gli sforzi stessi della corsa.
 
In Italia, nervosi, isterici come siamo, sfrenati gesticolatori, è ovvio che il cavallo stia sempre sul chi vive e non gradisca troppo la nostra manesca vicinanza. Negli Stati Uniti dove l’uomo della provincia e l’uomo di colore sono in genere più calmi e flemmatici, il cavallo vive più disteso e fiducioso. Per di più ogni atto è inteso a dare tranquillità all’animale. L’uomo gli si pone accanto come una persona buona e ragionevole ed è subito pronto a intervenire per togliergli ogni timore, quel senso selvaggio della paura e quel sospetto che si leggono negli occhi di ogni puledro.
 
Tra l’uomo e il cavallo si possono instaurare rapporti burrascosi così come pure realmente affettivi. Spesso risulta arduo raggiungere un’intesa comunicativa, perché pretendiamo che lui si adegui ai nostri schemi invece di studiare attentamente le sue attitudini psichiche.
 
Qualcuno se la sbriga gratificando il cavallo di una sola qualità, la memoria. Ma dicendo che il cavallo ha molta memoria non si avvedono che si tratta di un elogio umiliante, di una qualità in un certo senso meccanica che tutti gli animali posseggono, essendo tra le doti fondamentali per la sopravvivenza e che solo l’uomo, assediato sempre più dalle macchine “intelligenti” e memorizzatrici, va perdendo.
 
Il cavallo è intelligente a modo suo, con una capacità di comunicazione in minima parte sonora ma soprattutto silenziosa, attraverso quel modulo cerebrale chiamato telepatia, modulo da noi quasi perduto, sopraffatto e cancellato dalla comunicazione fonica e gestuale. Perciò rivolgere la parola ad un cavallo è talvolta vano in quanto se ciò che andiamo dicendogli lo interessa lo ha già percepito telepaticamente, se non lo interessa se ne resta chiuso in sé senza darci retta. E ciò che soprattutto lo interessa è il cibo, la strada da percorrere, l’ostacolo da saltare, la scuderia da raggiungere, il riposo da godere.
 
A stimolare la telepatia sono il desiderio e la necessità. Spesso il cavallo ha voglia di manifestare un suo desiderio che può andare dalla sete alla gratitudine, dall’affetto all’indicazione di un malessere o di un dolore. Ma non geme, non nitrisce, non scuote la testa. Al massimo batte un piede per terra per richiamare la nostra attenzione e poi fissarci intensamente restando immobile finché, se proprio non riusciamo a capirlo, sbuffa e se ne va. Quindi l’incomunicabilità è spesso reciproca e la figura peggiore la facciamo noi con tutta la nostra presunzione di essere predominanti. Perciò se nutriamo tanti dubbi e tanti sospetti sul conto dell’intelligenza del cavallo, immaginiamoci quanti ne nutre lui sul nostro!
 
Per esaminare le attitudini cerebrali e psichiche del cavallo dobbiamo analizzare la sua natura, la natura di un erbivoro, istintivamente pauroso, animale da fuga, ma, in caso di necessità, anche aggressivo dal che deriva la sua attitudine esemplare di corridore. La sua natura di erbivoro, fatalmente pauroso, provoca in lui instabilità psichica e quindi impressionabilità ed emotività quasi anormali, una sensibilità eccessiva ed eccedente le sue capacità cerebrali e le sue possibilità di controllo di se stesso. Viene così a crearsi in lui uno squilibrio fondamentale in ogni sua espressione e manifestazione specie nei nostri confronti, cioè nel rapporto con esseri che pretendono da lui l’impossibile, ossia un’immediata comprensione di ciò che da lui esigiamo. Da qui nascono equivoci, paure, smarrimenti e infine ribellioni del cavallo anche pericolose.
 
La colpa è spesso nostra, ineducati e impreparati a tenere un rapporto chiaro e nitido con l’animale per l’incapacità di farci intendere, di portare il cavallo nella condizione o nello stato d’animo di capire e di interpretare il nostro comando, la nostra volontà. Per nostra fortuna e per sua sfortuna il cavallo intende subito l’azione del morso, più tardi quella delicatissima e ambigua del frustino. Ma soprattutto è la voce, il tono della voce, che finisce per stabilire un rapporto tra il cavallo e noi, un tono confidenziale nel porgere la parola come avvertimento o come rimprovero, evitando sempre di drammatizzare la situazione. Importante è rimuovere dal cervello del cavallo angosce e paure che lo hanno tormentato dall’infanzia e cioè la doma, i primi violenti contatti con l’uomo, questo carceriere che non sempre può e sa manifestarsi come amico.
 
La necessità di istruire il cavallo per una carriera di corse costringe l’uomo a impegnare il cavallo con severità se non proprio con durezza. E invece il rapporto che il cavallo fondamentalmente cerca è proprio quello dell’affetto, dell’amicizia, essendo per sua natura un animale sociale, di gruppo e quindi bisognoso di legami che lo spingano a cercare simpatie nel clan, rapporti per il cibo, per la fuga, per la difesa, rapporti che sono necessari e quindi in parte meccanicistici.
 
Ma oltre agli istinti dettati dalla necessità è importante il legame dell’amicizia che tra i cavalli è tenace e profondo, un esempio, come ricordava Laura Dell’Elce, è l’amicizia tra Ribot e Magistris. C’è da notare che “il terremoto” Ribot andava d’accordo con Magistris perché quest’ultimo era un soggetto remissivo che accettava gli “scherzi” di Ribot, il preferito quello di mordergli la coda. Ma ci fu un episodio in cui le parti quasi si invertirono e Ribot decise di fare … “l’uomo”: lo raccontò il marchese Incisa ne “I Tesio come li ho conosciuti”: “Non dimenticherò mai il commento di Penco una volta che mi stupivo di veder Ribot, notoriamente difficile ed estroso, salire deciso la rampa di un aereo, dopo che il placido Magistris, invece di fargli strada, si era caparbiamente rifiutato di precederlo: “Ribot? Eh, lo conosco, deve essersi detto: Beh, qui devo far vedere che sono un uomo”. Questa, di considerare i cavalli quasi come persone e di comprenderne difetti e qualità, era una facoltà di Penco che è negata alla stragrande maggioranza del personale di scuderia italiano”. Magistris mangiava presto e finiva biada e fieno prima del campione; così Ribot, che stava nel box accanto oltre una bassa parete divisoria , per non mangiar solo gli buttava parte del suo pasto. I cavalli buttano sempre all’aria il fieno tentando di separare con i denti qualche ciuffo più saporito dal resto, tuttavia con difficoltà possono lanciarsi la biada, Ribot per un amico lo faceva …
 
Ribot da puledro poteva essere avvicinato solo dal suo artiere Mario Marchesi che lo capì per primo e riusciva a comunicare con lui nel migliore dei modi; se Tesio è stato il creatore di Ribot, Marchesi ne è stato il primo realizzatore, il primo a infilargli il morso in bocca, a convincerlo con le buone e con le cattive che la sella è uno strumento necessario e a saltargli in groppa mentre schiumava di rabbia, sgroppava, si impennava e nitriva scalciando. Racconta Max David che quando venne il momento della doma Marchesi appoggiò la sella sulla schiena di Ribot, dal garrese gliela spinse adagio verso le reni, gli strinse il sottopancia piano piano e dopo gli diede uno zuccherino. Il puledro era rimasto tranquillo e Mario non aveva resistito alla tentazione di offrirgli una seconda zolla di zucchero. Ma il puledro anziché buttarsi sul palmo della pano aveva fissato lo sguardo sulla mano tesa, era rimasto titubante e infine aveva rifiutato lo zucchero. Così Ribot aveva rivelato uno degli aspetti più validi del suo animo e aveva parlato chiaro: la sua dignità poteva consentirgli di accettare uno zuccherino, non due.
 
Marchesi rispettava le idee di Ribot, tipo quella di entrare nel suo box a marcia indietro “rinculando” perché gli dava fastidio la luce brusca della finestrella sulla parete opposta all’ingresso (e c’è da notare che dopo il primo Arco di Trionfo Penco, tentando di far capire a Ribot che doveva entrare nel box come gli altri, fece infuriare Ribot che scalciò, si ribellò e finì per entrare nel gabinetto accanto infilando una zampa nella tazza e rischiando di rompersela). Se non ci fosse stato il rapporto d’amicizia e reciproca comprensione tra Ribot e Marchesi Ribot avrebbe potuto non diventare un mito, così come se non ci fosse stato il rapporto d’amicizia e reciproca comprensione tra Varenne e Iina, Varenne avrebbe potuto non diventare un mito.
Segregati spesso 23 ore su 24 in un box (mentre il cavallo è, come ogni erbivoro, un libertario sfrenato) i cavalli cercano in noi l’affetto perduto con i loro simili. Se gli offriamo la nostra amicizia, sempre nel rispetto della sua mentalità e disposizione, abbiamo il merito di fare un cavallo felice. La noia del cavallo in box causa molti vizi e manie; come antidoto efficace possiamo mettere “vicini di box” due cavalli che si sono simpatici o lasciare nel box del nostro cavallo un compagno inatteso come una capretta tibetana.
 
Molto spesso a rispettare le idee e le scelte dei cavalli si fa solo del bene. Raccontò Aldo Santini le vicende di Signorina che, destinata a Isinglass, stava percorrendo la via di Newmarket, la High Street, lungo la quale vengono portati a spasso gli stalloni di serie B. L’allevatore di Signorina aveva ben altro in vista per la sua pupilla ma ad un tratto uno degli stalloni da marciapiede vedendola nitrisce estasiato in un lirico richiamo d’amore. Signorina si ferma, guarda e risponde: è il colpo di fulmine! Il traffico a quattro zampe si blocca. Signorina e il suo spasimante (Chaleureux) si annusano, si strofinano il muso, scalpitano a coda ritta. Insomma, è già un petting in pieno stile! I ragazzi di scuderia ridono, non l’allevatore che felice dell’innamoramento a prima vista decide di rispettare la scelta di Signorina: undici mesi dopo nasce Signorinella che sarà una campionessa capace di riuscire nella rara impresa di vincere in un anno sia Oaks sia Derby.
 
All’inizio del secolo la femmina più esuberante della storia del galoppo era considerata la bionda irlandese Pretty Polly che vinse 22 corse su 24 disputate. Amava la folla e i consensi, quando vinceva non rientrava nel box se prima non era stata applaudita con fragore, le due volte che perse non volle saperne di incontrarsi con il pubblico e si allontanò subito a coda bassa. Era unita da una stretta amicizia con un pony che si chiamava Joey e che la seguiva in tutti i suoi spostamenti, anche nelle sfilate di rappresentanza. La sua unica corsa in cui deluse, fu a 5 anni nella Coppa d’Oro di Ascot, ma un motivo c’era: due giorni prima era morto il piccolo Joey …
 
Un altro esempio tratto da “Pensiamo con il cavallo” di Henry Blake: “La cavalla che usavo per la caccia, Honesty, si tagliò vicino al tendine della zampa anteriore su un pezzo di zinco galvanizzato, il che significò tenerla dentro. Ma Honesty aveva un amico speciale e cioè Weeping Roger che io usavo per la corsa ad ostacoli su tracciato fisso e che in quel periodo tenevo fuori a pascolare perché si rilassasse dopo un’estenuante stagione di corse. Non potevamo tenere dentro anche lui e così portammo fuori un pony che gli facesse compagnia e quindi lui era abbastanza contento e soddisfatto, ma Honesty, che si trovava in uno dei box, cominciò immediatamente a star male. Non mangiava e il suo pelo divenne opaco. Inizialmente attribuimmo la responsabilità del suo stato di salute alla ferita che aveva subìto ma la zampa guarì in fretta, mentre Honesty continuava a saltare i pasti. Provammo a tentarla con un po’ di verdura del nostro orto. Uscii a tagliarne per lei. Ma Honesty dimostrò tutto il suo disprezzo defecandoci sopra. Continuava a star male e continuava a rifiutare il cibo. Non riuscivamo a trovare la chiave del problema, finché un giorno dovevamo catturare il pony di mia figlia Paddy per farlo ferrare e dal momento che era un demonio quando doveva essere catturato lo facemmo il giorno prima e lo spingemmo nel box di Honesty per quella notte. Uscii verso le ventidue per assicurarmi che non avesse cercato di sottomettere Honesty ai suoi voleri, e con mia grande sorpresa vidi che non solo aveva mangiato il suo cibo ma anche tutto il suo fieno. Così gliene misi ancora ed andai a dormire. La mattina seguente Honesty aveva mangiato tutto il cibo della notte precedente e divorò la sua colazione come un uomo che muore di fame e sta mangiando il suo ultimo pasto. Ferrammo il pony di Paddy e lo rimisi fuori. Riportai ad Honesty il suo cibo, compiaciuto per il fatto che finalmente aveva ricominciato a mangiare. Ma lei non lo toccò. Alla fine capii. Così trascorremmo l’intero pomeriggio a catturare di nuovo il pony di Paddy e non appena lo avemmo messo con lei nel box ricominciò a mangiare. Il problema che si era venuto a creare naturalmente fu provocato dal fatto che Honesty era una cavalla estremamente socievole e quando veniva privata di una compagnia perdeva il desiderio di mangiare, cadeva in uno stato di depressione e non aveva più voglia di far niente. Questa esperienza maturò in me una nuova capacità di discernimento nei confronti della vasta gamma di impulsi, di emozioni, di stimoli e di esigenze che formano la personalità del cavallo. Questo insieme di sentimenti fa di un cavallo ciò che egli è. E scoprire esattamente quali siano questi sentimenti e come interagiscono fra loro si prospettava un lavoro lungo e difficile. Ma mi resi conto che se fossi riuscito a comprenderli e ad interpretarli, avrei potuto servirmene per ottenere risultati migliori per me e rendere felici i cavalli. Un altro aspetto, che stava diventando sempre più evidente, era che c’è un certo numero di cose che un cavallo desidera e di cui ha bisogno, che, nonostante questo, sono completamente naturali per lui. Per esempio, sapevamo che ai nostri cavalli piaceva saltare, che saltare era un loro desiderio e una loro necessità. Ora questa cosa è totalmente innaturale per un cavallo che vive allo stato brado, così capimmo che in un cavallo deve esserci tutta una serie di impulsi che non nascono naturalmente, bensì dal condizionamento e dall’addestramento che noi gli diamo. Correre, giocare a polo, saltare e cacciare erano tutti esempi. Era l’addestramento ricevuto che spingeva un cavallo a voler battere gli altri nella corsa, a divertirsi tra il tafferuglio, nel terreno accidentato e i ruzzoloni che comportava il giocare a polo, e far propria una dose extra di impegno necessaria per un buon saltatore. Alcuni dei nostri cavalli si emozionano così tanto che rifiutano il cibo la mattina della caccia”.
 
I cavalli hanno sentimenti loro e devono interpretare anche le corse come un gioco e non come una costrizione. Basta osservare dei puledri in un paddock per capire che, come in un bambino, il gioco è per loro una necessità fisica e psichica: sprizzano gioia e voglia di scherzare, fanno brevi sgroppate, accennano a mordersi reciprocamente i garretti, si rotolano, si spruzzano con gli zoccoli mentre sguazzano in una pozza d’acqua, insomma niente di molto diverso da qualsiasi cucciolo.
 
Nei rapporti con l’uomo però il cavallo tende a comportarsi diversamente: è molto meno propenso a scherzare specie quando si trova nel box. Questo non vuol dire però che il cavallo diventi intrattabile, si tratta solo di sapere il modo in cui comportarsi con lui per poter avviare un rapporto corretto, per fare in modo che non abbia motivo di intristirsi capendolo, instaurando con lui un rapporto di fiducia, trattandolo con affetto e rassicurandolo.
 
Presupposto indispensabile è conoscerlo per sapere cosa fare e, soprattutto, cosa non fare. Il cavallo infatti non è particolarmente esigente ma è piuttosto permaloso e un po’ ombroso e fifone.
Un esempio della permalosità del cavallo la abbiamo da Max David, uno degli inviati speciali (“Corriere della Sera”) più ammirati e più letti degli anni ’40 che raccolse il racconto del fantino Paolo Caprioli sul successo in sella a Crapom del Gran Premio di Ostenda: “Crapom si era affiancato a Gris Perle, montato da Roger Brethes e stava per superarlo. Ora mancavano 400 metri. Improvvisamente Brethes colpì con una frustata sul muso Crapom. Da principio Crapom, pur continuando a galoppare, dette solo qualche segno di sorpresa, quasi di sbigottimento, poi fu preso da un’idea quasi ossessiva: la vendetta. Per Crapom la corsa non contava più: contava la vendetta. Rallentò l’andatura, abbassò le orecchie e tentò di prendere per le gambe il fantino di Gris Perle. Voleva morderlo. E i metri passavano veloci, e il traguardo si avvicinava anche troppo in fretta, e Caprioli, pur sollecitando a braccia il suo cavallo, non riusciva a convincerlo che non era il caso, che non era il momento, che ora bisognava vincere, e dopo, solamente dopo, si sarebbe parlato di vendetta. Crapom non ascoltava ragioni: voleva la vendetta subito e si buttò una seconda volta contro le gambe di Brethes e fu, per Crapom, una seconda balorda interruzione di andatura nella fase più critica della corsa. L’agitarsi di Caprioli sul sellino, con le gambe, con le braccia, con la schiena, con le spalle voleva dire: Crapom. per pietà, fallo per me, ora basta, siamo rovinati, andiamo, andiamo. Mancavano 200 metri al traguardo e le orecchie di Crapom abbassate verso la nuca volevano dire “No, ora o mai più, lasciami fare, me lo mangio!”. E Crapom tentò per la terza volta di addentare il birbante alle gambe. Allora Caprioli raccolse le redini in una mano e appoggiò l’altra mano, dolcemente, per un attimo sulla criniera del suo cavallo. Crapom allungò l’incollatura quasi per guardare e rendersi conto di quanto mancasse al traguardo e se gli convenisse mordere ora il fantino di Gris Perle oppure vincere in fretta e rimandare a dopo il regolamento. Il traguardo era vicino, prevalse la ragione e Crapom si decise a stampare il rivale”. Mostrando a Max David la foto del dopocorsa Caprioli diceva “Guardalo: Crapom è impressionante. Con gli occhi fuori dall’orbita, le orecchie ancora schiacciate contro la nuca, sembra che stia cercando, tra la folla che gli si accalca intorno, l’uomo da sistemare …”
Scriveva Federico Tesio che il cavallo nelle sue relazioni con l’uomo prova la stessa sensazione dei barbari, sconfitti dai romani e fatti schiavi, costretti a lavorare. Il domatore, con metodi gentili o bruschi, gli impone un ferro in bocca che può diventare uno strumento di tortura. L’uomo, per spiegare al cavallo che deve fermarsi gli tira il ferro sulle barre tra le labbra e i denti, per girare a destra tira a destra, per girare a sinistra tira a sinistra. E l’animale fa i movimenti che portano a sfuggire il dolore (quanto meno il ricordo di un dolore). E qui sta tutto il vocabolario che l’uomo ha inventato per mettersi in comunicazione con il cavallo, il quale di sua iniziativa interpreta vari suoni della voce umana senza che nessuno si sia dato la pena di spiegargliene il significato.
 
L’affermazione del “Mago” Tesio risente un po’ del fatto che lui aveva prevalentemente a che fare con il cavallo – atleta, cioè con un cavallo al quale si richiedono “prestazioni professionali” in cambio di vitto, alloggio e, per i più fortunati, una vecchiaia serena in un “harem” . Il rapporto tra allenatore (o fantino o guidatore) e cavallo è inevitabilmente condizionato dall’esigenza di raggiungere determinati obiettivi attraverso un particolare lavoro di preparazione e di conseguenza la ricerca di conoscenza e comunicazione nei confronti del cavallo è, per lo più, ristretta a quell’ambito. Non è quindi vero (di norma), come qualcuno erroneamente crede, che allenatori e fantini non amino i cavalli, ma è certo che per necessità sono tenuti a privilegiare il rapporto “professionale” rispetto a quello “amichevole”.
 
Fantini, guidatori e allenatori seguono un cliché stabilito da anni: il cavallo usato come mezzo per conseguire un successo, una vittoria spesso a qualunque costo. Il cavallo quindi è in uno stato di dipendenza totale, costretto a seguire corsi di addestramento speciali. Naturalmente le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare perché ad ogni lezione il cavallo pone in atto la sua sensibilità e il suo carattere con una infinita serie di variazioni. Ma è l’uomo ad imporgli un compito, a tiranneggiarlo per un fine e non sempre è in grado di richiedergli con garbo la collaborazione.
 
Per raggiungere un’intesa passabile se non perfetta con il cavallo occorre una nostra disposizione mossa da amore o da simpatia. Ho notato che in genere le persone semplici ma profondamente ricche di umanità riescono ad interpretare agevolmente i desideri dei cavalli e a stabilire un rapporto naturale, istintivo, senza sottintesi. Riescono a ciò le persone che parlano poco e intuiscono molto, che sono sensibili e generose.
 
Quando si cerca di interpretare i cavalli non con l’intuito ma con l’indagine e l’analisi la persona deve possedere un ingegno davvero superiore per arrivare ad una comprensione esatta e profonda delle esigenze del cavallo. Ricordo una cazzata detta da Moira Orfei quando sentenziò che il cavallo è il più stupido degli animali in quanto per imparare un numero del circo abbisogna di sei anni là dove una altro animale impiega tre o quattro anni. La signora Orfei non ha tenuto conto del carattere del cavallo il quale (proprio per la sua intelligenza) rifiuta di eseguire cose illogiche come sono quelle che gli vengono imposte nei circhi (come diceva Laura Dell’Elce ogni azione del cavallo ha una logica); riesce a fare il dressage perché le varie “arie” fanno parte della sua natura equina e hanno quindi una loro logica.
 
Tra uomo e cavallo non può esserci il classico “colpo di fulmine” per il semplice fatto che il cavallo è piuttosto riservato e solo con il tempo si affeziona ad un “padrone” che dimostri di comprendere e rispettarne le esigenze. Occorre un corteggiamento paziente e fatto di piccole attenzioni.
 
Per il cavallo il box è la casa, il luogo in cui trova la possibilità di riposare lontano da pericoli e in cui trova le cure ed il nutrimento necessari. Un box costruito in modo funzionale e ben curato può essere senz’altro determinante per la felicità del nostro cavallo. Dobbiamo però tenere presente che un troppo prolungato isolamento nel box può indurlo a cercare passatempi che alla lunga possono risultare dannosi per la sua salute, cioè veri e propri vizi. Il più tipico è l’abitudine di addentare con forza il bordo della mangiatoia o della porta del box e poi compiere dei bruschi movimenti con i muscoli del collo come a voler strappare. Quando questo movimento viene compiuto prolungatamente, il cavallo finisce per ingerire aria in quantità eccessiva, con pericolose conseguenze per la sua salute. Ecco dunque che per il suo benessere è importante fare in modo che possa trascorrere parecchie ore all’aria aperta e, quando è possibile, in nostra compagnia. Anche se solitamente all’ingresso in scuderia il cavallo ha già sentito e riconosciuto il nostro arrivo (talvolta lanciando brevi nitriti di gioia) un richiamo affettuoso sarà sempre ben accolto, specie se accompagnato da un dono “mangereccio” (il classico zuccherino, oppure carote o pezzi di mela o caramelle).
 
E’ molto importante non essere prevenuti nei confronti del cavallo, così da cercare di capire il significato reale di ogni sua manifestazione piuttosto che reprimerla immediatamente, considerandolo un capriccio o una cattiveria. Un cavallo che sta bene è di solito allegro e questo suo stato d’animo tende a manifestarlo specie al momento dell’uscita dal box (scalciando o con qualche piccola intemperanza), quando recupera la sua dimensione naturale e ritrova così la voglia di giocare come un tempo, quando scorrazzava libero. Potrà succedere che durante la fase della “vestizione” il nostro cavallo sia un po’ agitato ma sarà in genere sufficiente dargli qualche piccola pacca sul collo e parlargli dolcemente per calmarlo. Lasciamo che giochi, così come durante la strigliatura può capitare che cerchi di rubarci la spugna o la striglia oppure quando cerca di acchiappare chi gli passa vicino con un impeto ben diverso da quello con cui cercherebbe di mordere.
 
Nell’alimentazione c’è da tenere presente che l’avena ha un notevole potere eccitante e quindi va somministrata con criterio per non trovarsi poi con un cavallo eccessivamente agitato e nervoso.
 
Una caratteristica del cavallo è la tendenza ad imitare gli altri. Capita così che un cavallo si avvicini ad un altro e cominci a muovere la testa all’altezza dei fianchi dell’altro affinché quello lo imiti e così facendo lo liberi da insetti molesti, tafani, ecc. Così pure in corsa il cavallo “scosso” continua a correre.
 
Ovviamente non possiamo pensare di capire le eventuali paure o comportamenti strani del cavallo basandoci sulla nostra logica. Se un cavallo ha paura di una pozza d’acqua o non vuole salire sul van non possiamo sapere (come invece è più facile per gli esseri umani) se ciò è frutto di esperienze passate. Il cavallo si comporta secondo il suo istinto e la sua logica e quindi accanirsi per certi suoi atteggiamenti non fa altro che creare ulteriori tensioni e associazioni spiacevoli. Il cavallo oltre ad essere compreso in questi casi va aiutato con una presenza costante e rassicurante, con una pacca amichevole, uno zuccherino, un massaggio, una passeggiata accompagnata da qualche parola detta pacatamente (“Ok, dai, hai visto che non è successo nulla?”), questo per far sì che il trauma non vada ad incidere sulla psiche e possa essere dimenticato mentre in caso contrario la reazione del cavallo ad una nuova esperienza analoga sarà di ribellione e di difesa ad oltranza.
 
L’animale che per analogia può servirci meglio per comprendere il cavallo non è il cane ma il gatto, un libertario sfrenato, aristocratico, egoista, che rifiuta qualsiasi insegnamento. Rapportandoci al gatto riusciamo a comprendere meglio molti atteggiamenti e a giustificarlo in manifestazioni che ci sembrano negative e invece hanno una logica precisa. Inoltre il cavallo ha nei nostri confronti due seri ostacoli: la dimensione e gli zoccoli. La sua dimensione è per noi davvero scoraggiante, a causa di essa gli è vietato di entrare nelle nostre case. Solo l’arabo, vivendo nelle tende, poteva averlo a portata di mano, come un cane, con una vicinanza e un contatto tali da consentire al cavallo arabo di elevare notevolmente la sua intelligenza e questo spiega anche perché alcuni ragazzi nomadi (attualmente anche in Toscana) riescono bene nell’allenamento dei cavalli da corsa. Gli zoccoli sono un altro aspetto che impediscono al cavallo di manifestarsi con la spregiudicatezza del cane e guai se cercasse di farlo.
 
Nonostante tutto il cavallo riesce ad esprimersi in modo commovente quando non è richiesto, quando vuole manifestarsi per un’idea, per un moto d’affetto sortogli spontaneamente.
 
Personalmente ho dovuto rendermi conto di non aver mai capito a fondo un cavallo ma di aver avuto un rapporto sommario. Non solo, ma di aver avuto sempre torto io. Perché, dobbiamo convincercene, alla fine il cavallo ha sempre ragione.
 
Avesse la possibilità di esprimersi ci farebbe capire lui le sue ragioni e i nostri torti.
 
Ma, per sua sventura e nostra fortuna, tace … ermeticamente tace …
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